Parla Sergio Cervellin, 62 anni, imprenditore padovano. Negli anni Novanta brevettò il mocio Vileda e da allora fu un successo in termini di impresa e di fatturato. «Ora mi sono avventurato nelle nuove tecnologie per i carrelli delle pulizie industriali», dice. Dal 2016 Cervellin è proprietario del Castello di Battaglia Terme (Padova) diventato polo museale e ricettivo.
Sergio Cervellin da Villa del Conte ha scelto di fare del suo castello un museo di 365 stanze, una per ogni giorno dell’anno. C’è una stanza in più per gli anni bisestili. Il castello è quello del Catajo a Battaglia Terme. Costruito nel Cinquecento, affrescato dallo Zelotti, discepolo del Veronese. Avvolto dalla leggenda: si racconta del fantasma di donna Lucrezia uccisa con una rasoiata alla gola. Fu una reggia degli Asburgo: è stato l’ultimo soggiorno italiano di Francesco Ferdinando, l’erede al trono di Vienna, tre mesi prima di venire assassinato a Sarajevo. Fu la scintilla che fece divampare il fuoco della Grande Guerra. L’arciduca, collezionista orgoglioso di strumenti di tortura, era un appassionato cacciatore e al Catajo allevava daini per le battute di caccia. Diventato preda di guerra, nel 1929 il castello fu venduto dal Governo italiano alla famiglia Dalla Francesca che lo ha messo all’asta nel 2015.
La storia del castello è straordinaria, come spiega il direttore Marco Moressa, 36 anni, padovano. Il nome deriva da Ca’ sul tajo, la casa sul canale. L’aveva fatto costruire la famiglia degli Obizzi, mercenari che a fine 500 avevano il più grande esercito d’Europa. La villa era il loro marketing: offrivano una villeggiatura sontuosa a centinaia di ospiti internazionali che poi si sarebbero serviti dell’esercito. Oggi è di proprietà di Cervellin, 62 anni, tre figli, imprenditore del settore Cleaning. Lo chiamano Mister Mocio Vileda, ma precisa: Io l’ho solo inventato e brevettato.
Come è iniziata la storia dei Cervellin?
«La mia era una famiglia di agricoltori, i bisnonni pettinavano la lana, di soprannome ci chiamavano Pettenaro. Sono rimasto orfano da bambino, eravamo quattro fratelli. Mi sono diplomato con tanta fame, ho dovuto subito decidere se continuare gli studi morendo di fame o cercare un’attività. Volevo un lavoro che non fosse la fabbrica e scelsi di fare l’agente di commercio: ancora oggi risulto il più giovane agente di commercio iscritto all’albo, 18 anni e un giorno. Cominciai vendendo generi alimentari ai negozi, non c’era la diffusione dei supermercati. Ho fatto il militare a Paluzza al confine orientale, c’è stato il terremoto e come tutti i soldati ho dato una mano alla ricostruzione. Una volta congedato pensai che il settore nel quale avevo lavorato stava per tramontare e che dovevo gettarmi in un campo nuovo, se sapevi dove collocare un prodotto, allora potevi produrlo. Investivo in quello in cui credevo: aspirapolvere, carrelli per la pulizia. Andai all’estero per capire e studiare, vedevo che i tedeschi erano partiti prima e lo facevano bene: nel 1985 ho aperto la mia prima attività, la Euromop, credevo già nell’Europa, una società tra me e la prima moglie, in cinque anni passata da 170 milioni a 5 miliardi di fatturato. Allora la banca del territorio ti aiutava, credeva nelle aziende e nelle persone».
Quando è diventato Mister Mocio Vileda?
«Capii che copiare non bastava più, eri costretto a rincorrere la concorrenza, così cominciai a creare i brevetti che dal 1990 ho venduto al gruppo Vileda, tra gli altri uno che ancora adesso è in produzione, copiato in tutto il mondo: un telaio di un mocio che prima aveva 300 viti, io l’ho trasformato senza una vite, tutto a incastro. E’ il famoso Mocio Vileda venduto in milioni e milioni di pezzi».
Davvero si accende la lampadina quando nascono le idee?
«Durante un volo tra San Paolo del Brasile e Milano ero seduto accanto al finestrino e guardavo come si muovono le ali, flessibili, in un modo preciso al decollo. Mi è venuta l’idea del nuovo brevetto: un telaio usato col panno Swiffer, snodato in due parti per adattarsi ai pavimenti. Ho ceduto l’idea a una multinazionale che l’ha prodotta in Cina. Quando mi sono applicato ai carrelli multiuso per gli ospedali volevo abolire le troppe viti e le chiavi per montarli: ho studiato un sistema che richiedeva un minuto per montarlo, contro un’ora e mezza di prima. Così la mia azienda esplose in fatturato! Passai dall’era del metallo a tutto plastica: il carrello industriale in plastica l’ha fatto Cervellin! A me sarebbe piaciuto colorato, ma dovevo farlo grigio perché non desse l’idea del giocattolo. Voleva comprare il colosso americano Ruben Maid, 500 linee di prodotti, ha prevalso il gruppo Interpump di Reggio Emilia che mi lasciava il 50% dei profitti e abbiamo incominciato a produrre anche pompe e idropulitrici. Dopo undici anni ho ripreso la mia libertà».
E adesso cosa produce?
«Sono laureato all’università del marciapiede, capisco e conosco chi mi sta davanti. Mi sono avventurato nella mia impresa ed è nata la TWT (Team World Trolley), la tecnologia nel mondo dei carrelli per la pulizia. In due anni abbiamo raggiunto un fatturato di sette milioni di euro. Siamo in anticipo sul mercato, abbiamo venduto le idee ai cinesi, è importantissimo essere seguiti anziché inseguire. Siamo inseriti nelle più grandi catene alberghiere in Italia e all’estero. Sarei un Versace nella moda. Firmo carrelli per pulire posti non belli, come i bagni, tanto vale farlo con un oggetto bello».
E siamo arrivati al castello
«Non sono un uomo di cultura, però un giorno passando davanti al castello lo vidi tetro e abbandonato. Mi sono domandato subito: come mai nessuno ha pensato di comprarlo? Credevo non fosse alla mia portata. Nel 2015 era in vendita, l’avevano messo all’asta: da 11 milioni si era scesi a tre. Ero libero, avevo appena venduto l’azienda, ho pensato che questo sarebbe stato il mio gioiello e ho partecipato, convinto che ci fosse grande concorrenza. Invece, mi sono trovato l’unico e a marzo 2016 mi è stato consegnato il castello. I Beni Culturali si erano ben guardati da esercitare la prelazione. Il giorno dopo la consegna c’erano 40 persone che lavoravano, mi sembrava già bello».
Cosa vuole dire possedere un castello e quanto costa mantenerlo?
«Volevo mettere un bene storico alla portata di tutti, non farne la mia residenza. Tutti dovevano sapere che all’interno del castello c’erano bellissimi affreschi di cinquecento anni fa. Questo è il mio gioiello, ma non è il mio. Quanto costa mantenerlo non lo so, questa è un’opera senza fine. Se cambi una trave rischi ogni volta di dover cambiare il tetto. Abbiamo registrato quasi 50 mila visitatori, il record per una dimora storica: prima erano 5 mila e zero eventi, oggi per sposarti qui devi prenotarti anni prima. L’attività principale è quella museale, ci rivolgiamo alle scuole, abbiamo un festival per bambini. Questo è un posto magico, un posto di tranquillità, le ore passano senza che me ne accorga».
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